
Era l’11 agosto 1676 nel monastero di Palma di Montechiaro quando suor Maria Crocifissa della famiglia dei Tomasi di Lampedusa fu trovata a terra nella sua cella “con mezza faccia sinistra imbrattata di nero inchiostro, il respiro affannoso, il calamaio sulle ginocchia e una lettera in mano scritta con un alfabeto incomprensibile”: quattordici righe scritte con caratteri grafici sconosciuti. L’unica parola conosciuta è ohimé.
Suor Maria Crocifissa raccontò che quella parola era l’unica che lei aveva scritto di sua volontà e che per il resto era stata costretta a riportare quello che il demonio le aveva dettato e che solo a lei era permesso comprenderne il significato.
Al tempo le parole della donna furono prese per verità assoluta e in breve tempo si sparse la voce che quella lettera fosse un messaggio da parte del demonio per Dio affinché non interferisse nelle vicende degli uomini, smettendo di elargire loro “misericordia e pietà”; quando suor Maria Crocifissa ne intuì il significato, provò ad opporsi, ma la sua resistenza fu punita e lei fu tramortita. Non morì grazie all’aiuto di Dio stesso.
La monaca benedettina era solita affermare che il diavolo le aveva dettato altri due messaggi, ma che lei si rifiutò di trascrivere e per questo fu colpita.
Alla sua morte iniziò un processo i cui documenti sono custoditi nell’archivio della cattedrale all’interno della torre campanaria. Dopo 100 anni, la sentenza dichiarò suor Maria Crocifissa “venerabile”. La devozione alla monaca è ancora presente a Palma di Montechiaro e il corpo mortale è custodito in una cappella.
La stanza che un tempo custodiva il tesoro della cattedrale, nella torre detta del Montaperto, oggi spazio Mudia, accoglie la Sala Tomasi dove sono esposti i documenti del processo per la canonizzazione della venerabile suor Maria Crocifissa con il suo ritratto, una fedele riproduzione della lettera, e il ritratto del fratello san Giuseppe Maria Tomasi il cui corpo oggi è custodito nella Chiesa S. Andrea alla Vale a Roma.








